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mercoledì 26 novembre 2008

Giovane e forte

Il miglior abbinamento con i formaggi stagionati è senza dubbio l’Amarone della Valpolicella, per il suo gusto intenso e concentrato e per la “potenza” delle sensazioni gusto-olfattive che comunica.
L’occasione di una cena proprio a base di formaggi (per la precisione gli stagionati erano un Val di Fassa fatto in malga, un Vezzena stravecchio e un provolone di vecchissimo invecchiamento, quasi da grattugiare) ci ha fatto stappare proprio l’Amarone della Valpolicella CAMPO DEI GIGLI 2003 della Tenuta Sant’Antonio.
Devo premettere che l’amarone è un vino da lungo invecchiamento, e provare oggi un 2003 significa sicuramente non avere il meglio da questo prodotto, ma è anche vero che gli amaroni più datati che abbiamo in cantina sono decisamente pregiati e meritano un occasione un po’ più speciale per essere aperti.
Intanto devo confermare che fin dal bicchiere, il Campo dei Gigli mostra un viola scuro quasi impenetrabile, d’altronde non potrebbe essere diverso da un vino composto in larga parte da un’uva che si chiama “Corvina”.
I profumi sono caldi e polposi; si sente abbastanza l’alcool (d’altronde con i suoi 16% è inevitabile), ma è tranquillamente surclassato da intensi folate di prugne secche e confettura di amarene. Mostra anche una lieve speziatura nel finale dell’olfatto, ma è al gusto che queste emergono decisamente, ben rafforzate da sensazioni di ciliegia matura e da una nota di dolcezza molto piacevole. Mancano purtroppo le note evolutive dei grandi amaroni di 10 anni di invecchiamento, ma la potenzialità ce l’ha sicuramente anche questo prodotto.
Manca un po’ in eleganza… l’intensità del gusto è forse un po’ eccessiva, cosa sicuramente dovuta all’annata estremamente calda e secca che quell’anno non ha risparmiato nemmeno i vigneti del veronese, però tutto sommato la forte concentrazione, il calore dell’alcool e l’intensità dei gusti lo hanno reso un buon compagno dei formaggi che avevamo a tavola, decisamente saporiti.
Provateci!

martedì 18 novembre 2008

Un "nobile vino", ma non un "vino nobile"

Mi è capitato qualche volta di imbattermi in persone che non conoscono la differenza tra il Montepulciano d’Abruzzo e il Vino Nobile di Montepulciano. Prendo l’occasione di parlarvi di un vino provato ieri sera, per sottolineare che sono due cose ben diverse.
Il primo è un vino (ovviamente abruzzese) ottenuto prevalentemente da uva Montepulciano, che è proprio un vitigno che si chiama così, ma non ha nulla a che fare con la cittadina di Montepulciano, in provincia di Siena. Questa città è invece famosa per una DOCG (il Vino Nobile di Montepulciano, appunto), che riguarda vini fatti con la prevalenza di uva Sangiovese (e per la precisione il sangiovese grosso o “prugnolo gentile”, una sotto-varietà tipica della zona, nella misura minima del 70%).
Essendo quindi fatti con vitigni diversi, hanno anche caratteristiche ben differenti.

Oggi vi racconto del Montepulciano d’Abruzzo SPELT 2001 della Fattoria La Valentina, un vino che mi ha positivamente sorpreso, visto il prezzo “onesto” che l’ho pagato.
Fin dal bicchiere si mostra rosso rubino abbastanza carico, con poche sfumature granata malgrado l’età. Al naso ha sorpreso per la grande intensità dei profumi, davvero “esplosivi” e ben variegati. Forse mancavano un po’ di eleganza, si mostravano un po’ troppo muscolosi, ma per nulla infastidenti, anzi l’ho considerato quasi un pregio in questo vino. Immediatamente hanno prevalso la mora da gelso matura ed il mirtillo, seguiti da un aroma che non riuscivo bene a identificare… eppure era ben distinguibile… Mia moglie ha suggerito “datteri”… Ho infilato nuovamente il naso nel bicchiere e le ho dato ragione. C’era una nota di surmaturazione che ricordava i datteri.
In bocca si è mostrato caldo e avvolgente (ovvio con l’alcol a 14,5%), forse un po’ troppo, ma i tannini erano davvero morbidi e mostrava sotto sotto una vena di acidità, segno che la sua permanenza in bottiglia può proseguire ancora qualche anno. Qui i datteri hanno lasciato il posto definitivamente a mora e mirtillo maturo e il finale si è mostrato piacevolmente dolce. Discretamente buona la struttura, che lo rende abbinabile a secondi di carne anche complessi.
Un vino sicuramente da comprare una seconda volta.

venerdì 14 novembre 2008

Il "padrone" di casa nostra

Questa volta vi racconto di una bottiglia che ho comprato nell’ultima edizione di “Cantine Aperte”, questa primavera.
Quella domenica, avendo impegnato la mattinata alla ricerca di ottimi funghi pioppini, non ho potuto fare molta strada nel pomeriggio per andare a visitare qualche cantina “famosa”, quindi mi sono fermato a Tezze di Piave, dove c’è la caratteristica azienda agricola Bonotto delle Tezze. Il loro vino di punta, manco a dirlo, visto dove si trova, è il raboso Piave doc POTESTA’, del quale ho comprato l’annata 2004.
Questo vitigno, il raboso del Piave appunto, è il principale dei vitigni autoctoni della zona. E’ un’uva che in generale fornisce vini rustici e spigolosi (basti pensare che la parola “raboso” deriva da “rabbioso”), come ogni tanto doveva essere il carattere dei vecchi contadini trevigiani, ma come loro, se trattato con il dovuto rispetto, sa ingentilirsi e far apprezzare anche una discreta eleganza.
Infatti questo vino nasconde gli aspetti ruvidi del vitigno e mostra un lato piacevolmente gentile di questa uva, ma senza perderne la tipicità. Nel bicchiere ha mostrato un colore rosso rubino vivo e brillante, non particolarmente carico, segno di una concentrazione per niente spinta. Al naso ha mostrato profumi non molto intensi ma di discreta finezza, con una piccola prevalenza di ribes e mora, ma con una nota lievemente erbacea che caratterizza un po’ tutti i vini di questa zona.
In bocca non ha mostrato una grande struttura, ma una grande acidità (quindi un vino decisamente “fresco”) unita ad una discreta dolcezza e a tannini molto morbidi hanno reso i sorsi ben piacevoli. Non un vino eccelso ma di beva piacevole, senza perdere la tipicità del vitigno.
Ha accompagnato splendidamente un tomino alla piastra avvolto nello speck.
Se poi aggiungiamo che mi è costato decisamente poco, allora diventa proprio un vino interessante.

martedì 11 novembre 2008

La variabilità è dei vini genuini

I produttori di cui ho maggior fiducia sono quelli i cui vini mostrano effettivamente differenze da un’annata all’altra (che questo poi non si rifletta effettivamente sui prezzi lo trovo decisamente scorretto… ma è un argomento che non ho intenzione di trattare oggi). Quando queste differenze sostanziali mancano e un vino mantiene caratteristiche pressoché identiche da una vendemmia ad un'altra, credo che dietro ci sia molto di “artificioso”, con grandi lavorazioni di cantina che tendono a mascherare i difetti, con il risultato di coprire anche le tipicità delle uve con cui sono fatti (è il caso dei vini ultra-barricati, che diventano polpettoni legnosi e vanigliati in cui distinguere i vitigni diventa impossibile).
Confermo che il TORRIONE della Fattoria di Petrolo, in Toscana, mostra effettivamente questa variabilità. Mi era capitato qualche mese fa’ di assaggiare l’annata 1999 e l’ho giudicata davvero notevole, e quindi venerdì scorso ho voluto provarne il 2001.
E’ partito molto bene, mostrando un bel colore rosso rubino non particolarmente carico e tendente al granato, come dovrebbe essere nei grandi sangiovesi “in purezza” con già qualche anno passato in bottiglia.
Al naso profumi discretamente intensi con una grande prevalenza di prugna e confettura di ciliegie, con una nota speziata appena percettibile.
In bocca si è mostrato un po’ troppo “muscoloso”, con tannini secondo me troppo aggressivi rispetto alla tipicità del vitigno. Erano comunque ben presenti e piacevoli i sentori di frutta rossa matura con note di tabacco e caffè a fare da contorno, ma ahimè col passare dei minuti sono state surclassate dall’astringenza ancora troppo invadente e da una vena amarognola che rimaneva a lungo dopo il sorso.
Probabilmente tra qualche anno questo vino evolverà in un gran bel prodotto, quando i suoi tannini saranno stati mitigati dalla permanenza in bottiglia, ma ad oggi mi è sembrato ancora acerbo (e dovreste ricordare da post precedenti quanto “il momento giusto” sia importante per far esprimere ad un grande vino il meglio di sé).
Badate bene, non un vino cattivo, solo che per me è stato inevitabile il confronto con l’annata 1999 nella quale aveva mostrato una classe davvero superiore.

mercoledì 5 novembre 2008

Vicini di casa.

A volte non serve fare molta strada per trovare vini di qualità a prezzi bassi, capita di averli fuori delle porte di casa e di scoprirlo quasi per caso.
Ne è un esempio il Piave Cabernet DOC Riserva 2000 dell’azienda Castello Carboncine, che si trova alle porte di Treviso, in direzione del fiume Piave, appunto. Un vino, badate bene, pagato circa cinque euro… e per questa cifra dona molto più di tanti altri prodotti in commercio.
Aggiungo per completezza che si tratta di un blend tra le due tipologie cardine cabernet sauvignon (per la maggior parte) e cabernet franc, e sosta diversi anni in grandi botti di rovere in cui si affina e si ammorbidisce.
Il colore si presenta rosso rubino intenso ma non impenetrabile. Che non abbia una grande concentrazione lo dimostra anche il grado alcolico non particolarmente elevato (12,5%), però al naso ha mostrato bei profumi di frutta rossa, quasi sorprendentemente dolci, molto differenti dai "soliti" cabernet della zona Piave, di solito asprigni ed erbacei fin dal profumo. Il tipico peperone verde del cabernet è uscito un po’ alla distanza ma non ha mai prevaricato la dolcezza della mora e della prugna che salivano con buona intensità dal bicchiere.
In bocca ha mostrato una discreta mineralità, senza eccessi, con la conferma delle sensazioni di frutta rossa percepite nei profumi. Giusto una nota erbacea nel finale, a conferma dei vitigni che lo compongono, ma davvero “leggera” e ben amalgamata. Non elevatissimi il corpo e la struttura, ma d’altronde non si tratta di un vino del sud… qui nel nord-est è giusto che sia così.
Un rapporto qualità-prezzo che dovrebbe far riflettere molti produttori delle stesse zone e portarli a credere un po’ di più nella potenzialità della zona del Piave, troppo spesso relegata a produrre vinelli “massivi” senza prospettive lungimiranti.